L’ANPI di Volterra sulla giornata della memoria


INTERVENTO dell’ANPI VOLTERRA  di Fabrizio Longarini non presente fisicamente ma vicino a tutti noi in questo giorno speciale.

Sulla Shoah non si conosce mai a sufficienza, nonostante gli studi, le sentenze dei tribunali del dopoguerra, i materiali documentali accumulati negli archivi, i libri ed i film.
La Shoah –annientamento- è la macchina dello sterminio messa in funzione in Europa dai nazisti e colpì gli inquilini della porta accanto. Le leggi razziali votate all’unanimità dal parlamento fascista, la persecuzione degli ebrei italiani dopo l’otto settembre del 1943, la loro deportazione nei campi di sterminio, e infine la loro eliminazione nelle camere a gas e nei forni crematori, non sono il ricordo esclusivo di una comunità e neanche soltanto parte di una tragedia terribile che ha segnato il continente intero nel ‘900.
L’annientamento del popolo ebraico e con esso il martirio di antifascisti, prigionieri di guerra, zingari, omosessuali, testimoni di Geova, disabili mentali e fisici, intere popolazioni slave, interrogano la coscienza collettiva di tutto il mondo e pongono sulla bilancia della storia interrogativi universali che riguardano ognuno di noi e ogni generazione.
La memoria non è un fatto statico, è un processo, un’azione, un impegno morale.
Aver fissato sul calendario civile del nostro paese la data della liberazione di Auschwitz, il 27 gennaio del 1945, non significa guardare al passato, perché la memoria pubblica diventi coscienza collettiva, occorre tradurre lo sguardo su quel tempo, in uno strumento di lettura della nostra condizione presente. Fare della memoria un atto che si compie tra vivi per mettere in comune tra noi valori che servono ora, subito.
La risiera di San Sabba a Trieste, il Binario 21 della stazione di Milano, il Portico d’Ottavia a Roma, il campo di concentramento di Fossoli, così come i luoghi terribili del genocidio – Dachau, Mauthausen, Buchenwald, Auschwitz, rimarranno per sempre la testimonianza atroce e terribile di ciò che è accaduto anche nel nostro Paese. Il 27 gennaio non ricorda dunque dei dolori privati, ma una tragedia collettiva che riguarda la memoria pubblica degli italiani.
In un mondo dove la causa della tolleranza non è mai vinta, dove ogni conquista civile e sociale va riconquistata, dove i segni del cinismo, dell’indifferenza, della caduta dei lumi e dei valori sembrano perenni, vediamo come il frutto di un’umanità riscattata, ricordare quella macchia nera che pesa sulla coscienza del mondo.
C’è ancora troppa gente che ignora questa parte della storia, ma non perché non la conosca o non ne abbia mai sentito parlare, semplicemente perché sono convinte che questo genere di fatti non la riguardi, dal momento che sono ormai passati e che non sono stati vissuti da loro in prima persona.
Questi stessi individui non si rendono però conto, che nel nostro mondo evoluto e globalizzato corrono pensieri razzisti, xenofobi e negazionisti, totalmente intolleranti verso i migranti e i diversi in nome di una non meglio precisata sicurezza sociale.
I deportati nei campi erano contrassegnati da triangoli di colori diversi: nero per i cosiddetti asociali, verde per i criminali comuni, giallo per gli ebrei, rosso per i dissidenti politici, azzurro per i migranti, marrone per gli zingari, viola per i testimoni di Geova, rosa per gli omosessuali.
I “finocchi” dovevano essere facilmente riconoscibili, anche a distanza, e quindi i triangoli di stoffa applicati sulle divise erano più grandi. Gli zingari, gli omosessuali e gli ebrei erano gli internati che più spesso e più intensamente erano vittime dei supplizi e delle botte dei kapò e delle SS. Il pregiudizio antiomosessuale fu uno dei fondamenti dell’ideologia del nazionalsocialismo.
Himmler disse così ai suoi generali in un discorso nel febbraio del 1937…” se ammetto che ci sono da uno a due milioni di omosessuali in Germania, vuol dire che l’8 o addirittura il 10 per cento degli uomini sono omosessuali e, se la situazione non cambia, il nostro popolo sarà annientato da questa malattia contagiosa “….Le cifre della persecuzione nazista e fascista degli omosessuali sono grandi, 30-40000 persone sterminate in nome di un paradosso: la persecuzione, con leggi razziali, di una minoranza che non è una razza ma un gruppo sociale unificato esclusivamente da un orientamento sessuale, oltre le quali non hanno niente in comune, né una religione, né un’appartenenza genetica, né una cultura.
La base per la politica razziale nazionalsocialista non era costituita soltanto dal mortale antisemitismo ma anche dall’immagine del nemico zingaro che troverebbe fondamento nella biologia. La furia nazista liquidò oltre 500mila rom, sebbene questi non siano esplicitamente menzionati nelle leggi razziali di Norimberga, sono compresi tra il” sangue misto e degenerato”e condotti al massacro. Prima devono subire però la sperimentazione razziale e la ricerca genetica di figuri quali Ritter e Mengele che ad Auschwitz sottopone le romnià (donne rom) a sterilizzazioni con iniezioni intrauterine di sostanze formaldeidi e a Buchenwald gli uomini per esperimenti sul freddo e sul tifo, inoculando loro la malattia per poi studiarne le reazioni fino alla morte. Il genocidio pianificato dei rom si conclude nella notte del 31 luglio 1944 nella parte del lager di Birkenau dove nelle 32 baracche loro assegnate all’alba del nuovo giorno, non un solo componente delle comunità romanì, viene trovato vivo.
Questa è l’eredità, l’enorme fardello un peso difficile da gestire che ci portiamo dietro, perché e la somma di sofferenze che hanno ferito l’umanità. Aver superato la soglia di quello che chiamiamo il male assoluto, una metafora utilizzata per dire l’indicibile, costituisce un’esperienza tragica e insieme un rovello della memoria collettiva non solo dei popoli toccati e coinvolti direttamente, ma per la sua portata reale e simbolica, tutti quanti.
Dobbiamo sempre tener ben presente la lezione della storia, perché solo essa porta consapevolezza non di ciò che questo o quel governo, o questo e quel regime ha fatto, ma di una questione più rilevante: di come per vie apparentemente innocue, per somma di indifferenze, si possono aprire voragini in cui tutto precipita e si consuma in poco tempo, se non esistono attenzioni vigili e contrappesi alle spinte distruttive che l’uomo si porta dentro. E poi dovremmo fare più attenzione alle parole. Sono importanti le parole, molto importanti… per anni abbiamo lasciato impunemente sproloquiare un partito di governo che sputava insulti su tutti, dai meridionali agli extracomunitari. Le “sparate” della Lega? Massì, lasciamoli dire: che male faranno….i roghi nei campi rom, l’assassinio di due senegalesi, gli assalti ai centri sociali, gli accoltellamenti dei gay, le provocazioni quotidiane a chi fa volontariato o chi si dichiara di sinistra…semplicemente ci spiega qual è stato il prezzo dell’aver tollerato per anni la denigrazione del diverso. Il discorso sulla libertà di manifestazione è complesso, ma alcune cose non si dovrebbero poter dire.
La predicazione del disprezzo ha una responsabilità di linguaggio. Occorre ritrovare un nuovo senso pubblico delle parole. Le parole seminano odio, che poi germoglia. Spargono benzina, a poco a poco, in modo che il giorno in cui un cerino cadrà, per sbaglio o per dolo, tutto prenderà fuoco. Esiste una polveriera nera che in questi anni si è sviluppata praticamente indisturbata, ed ecco così sugli scudi e tollerato lo squadrismo di varie organizzazioni dell’ideologia nera estrema, dal fascismo del terzo millennio di casa paund, al nazionalsocialismo di forza nuova, fino al modello hitleriano rivendicato da “militia”. Nel silenzio di tanta pubblica informazione, di pestaggio in pestaggio e di propaganda in propaganda è sfociata nelle piazze e sul web, sui giornali, sui libri, alla radio e in tv. Qualcuno pensa che queste considerazioni siano anche troppo ovvie, come ovvio è il fatto che razza è un termine biologicamente privo di significato.
Ma bisognerà replicarle sapendo di ripetersi, come antidoto, ogni volta che il veleno della discriminazione s’inietta in un corpo sociale ancora miseramente debole.

Per cui ricordare è il solo modo di cui disponiamo per riconoscere se ci avviciniamo a quel limite.


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