Un partito è un partito. Cioè?


Il Manifesto 7 aprile 2011

di Alberto Burgio

Da gran tempo ci dibattiamo dinanzi a un dilemma. Per un verso vediamo la desolante inconsistenza dell’opposizione parlamentare, un dato acquisito anche nella stampa estera, per la quale (parliamo del Monde, dell’International Herald Tribune, della Süddeutsche Zeitung) l’inefficacia del centrosinistra è un ormai un presupposto. Per l’altro verso ragioniamo in base al postulato, a prima vista ovvio, secondo cui l’opposizione (a cominciare dal Pd) non può non mirare al governo del Paese e quindi impegnarsi per spodestare la destra. La competizione al massimo livello continua ad apparirci la ragion d’essere dell’opposizione, perciò restiamo disorientati di fronte a quella «resa senza condizioni alle ragioni dell’avversario» di cui parlava Piero Bevilacqua sul manifesto del 2 aprile, e stentiamo a trarre conclusioni coerenti dall’osservazione della scena politica. Forse è il momento di chiedersi se nelle premesse dei nostri ragionamenti non si annidi un baco. L’impressione è che essi muovano da una concezione sbagliata del partito politico, del suo odierno modo di essere e di operare.
Un partito di grandi dimensioni si rappresenta sulla scena mediatica come candidato al governo del Paese. In realtà non è soltanto questo. Venuto meno (con l’eccezione della Lega Nord) il radicamento sociale dei partiti di massa, permane un’altra forma di radicamento delle forze politiche (sia di governo che di opposizione). I partiti sono strutture organizzate, apparati, collettori di un ceto politico e amministrativo ben radicato nei luoghi del potere diffuso e del sottogoverno: enti locali e aziende di servizio; ordini professionali e sistema dell’informazione; cda di banche, fondazioni, imprese partecipate, assicurazioni e, d’ora in avanti, anche grandi università. Di questo complesso mondo retrostante si tende a non parlare. Esso rimane, di norma, invisibile ai più. Ma se lo si tiene nel debito conto, si profila uno scenario politico molto diverso dal consueto.
La rappresentazione vulgata della lotta politica (soprattutto al tempo del bipolarismo) evoca una competizione tra blocchi coesi e contrapposti, tra loro alternativi: lo scenario manicheo di quello che Gramsci definirebbe uno scontro «totalitario». Tale rappresentazione è anacronistica. Oggi (da un quarto di secolo a questa parte) la lotta politica non concerne tanto idee, valori e progetti. Coinvolge in primo luogo i terreni sensibili dell’amministrazione e della governance. Nella realtà il confronto tra le forze politiche verte perlopiù sulla distribuzione capillare di poteri, posti, prerogative e privilegi: una funzione che comporta conflitti a bassa intensità, contenuti – questo è il punto – entro una cornice di cooperazione. Ne consegue una metamorfosi dei partiti (a cominciare dai più grandi): una trasformazione delle funzioni che retroagisce in profondità sulle culture politiche e sulle opzioni ideologiche.
Complice il maggioritario, i partiti operano sul territorio come corporazioni di potentati locali (Marx parlerebbe di «comitati d’affari») e non assolvono più (se non in minima parte) la funzione di organizzazione, civilizzazione e rappresentanza del dibattito politico diffuso affidata loro dalla Costituzione. In tale contesto il cuore della dinamica istituzionale è costituito, di fatto, dalla dialettica tra gli interessi rappresentati e tutelati: interessi forti, fatti valere da soggetti a loro volta dotati di influenza e di grandi capitali. Anche per questa ragione strutturale il Parlamento si è ridotto a un museo delle cere o a un distributore di prebende. Questo processo di amministrativizzazione e di degenerazione corporativa della politica è il telaio materiale (lo hardware) di un nuovo americanismo: alla «gente» si offre lo spettacolo della rissa politica, mentre il sistema funziona in modo efficace al riparo da sguardi indiscreti.
C’è poi il telaio culturale o ideologico (il software), anch’esso radicato nel corposo mondo degli interessi. Si litiga, certo, a beneficio degli spettatori. Anzi si litiga in forme brutali, canagliesche, a suon di insulti e dossieraggi. Ma di che cosa si discute? Di cognati e di escort, di bilanci falsi e di tangenti; quando va bene, di bioetica e di diritti civili. E su che cosa si litiga? In buona sostanza, su chi deve comandare: sono conflitti sui «nomi propri», non sulle cose. Nel frattempo la politica “vera” – quella degli accordi, degli scambi, dei compromessi, dei sistemi informali di relazione e coalizione – opera indisturbata, perché il dibattito pubblico non coinvolge più (da una buona ventina d’anni) i temi scabrosi del modello sociale, del comando sulla produzione, delle alleanze internazionali e, per dir così, della filosofia della storia: tutti temi sui quali vige ormai un collaudato accordo bipartisan, cementato dal comune ripudio dell’ispirazione «bolscevica» della Costituzione del ’48.
È il paradosso del bipolarismo (ancora nel segno dell’americanismo): alla polarizzazione della scena corrisponde la convergenza della politica, il che spiega la continuità delle scelte assunte dai diversi governi su terreni cruciali: le riforme istituzionali (da ultimo, l’università e il federalismo fiscale), la politica economica ed estera (tagli alla spesa sociale e «guerre democratiche»), le relazioni industriali (la precarietà del lavoro), il controllo dell’immigrazione ecc. L’opposto di quanto accadeva nella vituperata Prima repubblica, al tempo del famigerato consociativismo, quando il confronto politico si conteneva entro forme civili ma verteva su questioni fondamentali e mobilitava culture e progetti effettivamente alternativi.
Che cosa discende da tutto ciò? In estrema sintesi, due conseguenze. La prima, sul piano analitico: la competizione per il governo del Paese non è affatto prioritaria. Conquistare Palazzo Chigi farebbe piacere, ma essenziale è la conservazione di un quadro generale di cooperazione politica e amministrativa, che assicura concreti benefici a tutte le forze rappresentate. Il che rende compiutamente ragione della misteriosa inefficacia dell’opposizione, nei desiderata della quale non rientra in alcun modo lo sconvolgimento dell’attuale stato di cose. La seconda implicazione è politica e riguarda la sinistra.
Se siamo d’accordo che battere la destra sia un fine in sé e non vogliamo ripetere il disastro del 2008 (frutto di un’analisi errata dei rapporti di forza), la sinistra (nella migliore delle ipotesi, il 10-13%) deve mirare a stringere col centrosinistra (30-32%) accordi parziali, limitati a pochi ambiti (l’equità fiscale, la politica dei redditi, il welfare, forse i beni comuni), rinunciando ai temi (primo fra tutti la guerra, come dimostra la Libia) sui quali i principi non sono negoziabili e le distanze restano incolmabili. Inutile dire che in questa situazione la frammentazione della sinistra è solo un impedimento alla sua autonomia e un regalo alla controparte. Ci pensi bene Nichi Vendola, se non vuol relegare Sel in una gabbia dorata ma opprimente. Tale da rendere sempre più arduo distinguersi su materie (prima fra tutte proprio la guerra) che vedono il centrosinistra assumere posizioni irricevibili.


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